Dubai, il mercato dell’arte vola

Il coronavirus non ferma Art Dubai, da poco conclusa. Sold-out dei biglietti prima dell’apertura e vendite corpose, su livelli pre-pandemia. 18mila visitatori nell’arco di 6 giorni, con accessi su prenotazione per fasce orarie. Un innovativo metodo di pagamento, con una percentuale sulle vendite corrisposta agli organizzatori, ha sostituito la tradizionale tassa sullo stand rendendo più facile partecipare a questa 14esima edizione alle 50 gallerie provenienti da 31 Paesi. Incassi per 3 milioni di dollari sono stati realizzati solo nei primi 3 giorni, dedicati a visite vip su invito.

“Questa edizione è stata un’impresa ciclopica. Ancora non ci capacitiamo di come siamo riusciti a farcela -mi racconta Chloe Vaitsou, Direttrice Internazionale di Art Dubai– Abbiamo dovuto cancellare l’edizione dell’anno scorso all’ultimo momento a causa della pandemia, mentre quest’anno siamo stati i primi a ripartire con una manifestazione d’arte internazionale in presenza, sebbene in edizione ridotta”. Un format riadattato rispetto agli anni precedenti dove prendevano parte 90 gallerie. Cambiata per via del Covid anche la sede, non più Madinat Jumeirah ma il Dubai International Financial Centre (DIFC), con tre tensostrutture create per l’occasione, senza alcuna divisione in sezioni, in cui è stato possibile controllare gli accessi e filtrare l’aria in maniera più sicura. “Tutti sono stati felicissimi di tornare in un ambiente in cui fosse possibile interagire, essere a contatto con le opere d’arte, essere connessi, avere interscambi culturali” sottolinea Chloe Vaitsou.

Un’edizione più raccolta, con un numero di gallerie quasi dimezzato, che però è riuscita a mantenere il suo flair cosmopolita. “Sono cinque anni che partecipiamo ad Art Dubai -mi dice Guglielmo Hardouin, della Galleria Giorgio Persano di Torino– Nel Medio Oriente è la realtà con il maggior respiro internazionale sia come partecipazione di gallerie, sia come pubblico, pieno di investitori e collezionisti attenti”. Vediamo insieme i giovani artisti da tener d’occhio, le opere di maggior impatto visivo e le gallerie, tra cui spiccano anche quelle italiane. 

Occhio agli emergenti

Una prerogativa di Art Dubai è dare spazio ad artisti giovani fornendo loro una piattaforma per farsi conoscere.

“Quest’anno c’è Tafeta, una galleria d’arte con sede a Lagos e Londra che espone lavori di artisti nigeriani eccezionali e poi anche Gallery ArtBeat da Tbilisi con interessanti pittori georgiani -mi spiega Chloe Vaitsou, Direttrice Internazionale di Art Dubai- Poi c’è la Saradipour Art Gallery con sede a Tehran e Los Angeles che rappresenta un promettente pittore iraniano, Moslem Khezri. Tanti musei e istituzioni stanno acquisendo le sue opere. C’è un’incredibile varietà di artisti, ognuno con le sue caratteristiche e personalità”.

Tra gli emergenti che suscitano interesse la Direttrice internazionale Vaitsou segnala anche Alia Ali, rappresentata dalla Galerie Peter Sillem di Francoforte, un’artista bosniaco-yemenita-statunitense che fa ricerche sui tessuti e i cui risultati si traducono in straordinarie opere d’arte dai colori accesi.

Multiculturalismo, colonialismo, universalità e identità alcuni dei temi sviluppati nei lavori della Ali che colpiscono per la brillantezza cromatica. “Uno dei tratti di questa edizione sono i colori -mette in evidenza Chloe Vaitsou– Le persone hanno bisogno di essere nuovamente felici e in questa fiera si percepisce la necessità di riconnettersi, di tornare ad una certa tattilità, sebbene non ci si possa toccare”. C’è anche un’artista egiziana di trent’anni, Amani Mousa, rappresentata dalla Mono Gallery di Riyadh.

“Realizza bellissimi disegni di paesaggi del Cairo ripresi dall’alto” dice Vaitsou che segnala anche la Zawyeh Gallery di Ramallah, un luogo in cui non è facile avere una galleria d’arte e che l’anno scorso ha aperto anche uno spazio a Dubai. “Rappresentano giovani artisti palestinesi. È molto interessante vedere cosa emerga a West Bank, nei territori occupati, e qual sia la narrativa che esplorano in quei luoghi gli artisti -dice la Direttrice internazionale Vaitsou- In particolare Yazan Abu Salameh crea paesaggi che fanno parte dei suoi ricordi d’infanzia”.

È cresciuto in Palestina e nelle sue opere si vedono il cemento, frammenti di lego, case che ricordano disegni infantili.

Altrettanto interessanti le opere di Ruba Salameh, nata a Nazareth nel 1985, attraverso le quali l’artista esplora con fine ironia a tratti pervasa da un pizzico di cinismo temi quali territorio, geografia, migrazioni, nazionalismo. Con la sua scultura realizzata assemblando oggetti trovati Bashar Alhroub, nato a Gerusalemme nel 1978, analizza il senso di appartenenza ad una comunità e l’identità, con un messaggio socio-politico sempre sotteso. 

L’arte negli Emirati

La galleria Lawrie Shabibi di Dubai ha offerto una panoramica dell’arte emiratina ad Art Dubai attraverso due figure appartenenti a due diverse generazioni. Mohamed Ahmed Ibrahim, classe ’62, presenta un linguaggio astratto che richiama in qualche modo l’estetica pop.

Forme stilizzate, colori vivaci. È stato scelto come artista che rappresenterà gli Emirati Arabi Uniti alla prossima Biennale di Venezia. Ibrahim vive in una zona degli Emirati al confine con l’Oman, un luogo in cui la natura è molto diversa da Dubai. Montagne, terreno pietroso, paesaggi selvaggi. Nei suoi dipinti trae sempre molta ispirazione dalla natura, tanto che molti lavori riprendono forme di piante e vegetazione che l’artista riproduce con uno stile molto astratto.

Astro nascente dell’arte emiratina è la trentenne Shaikha Al Mazrou, nata a Dubai vive nell’emirato ma ha studiato a Londra. Le sue opere sono astratte e geometriche. Al Mazrou è influenzata dal minimalismo e gioca molto con l’elemento materico. I suoi lavori sono realizzati con il ferro ma sembrano soffici, con pieghe e rigonfiamenti che li fanno apparire come fossero di materiale plastico gonfiabile. Sono opere fatte per rendere in modo plastico questa contraddizione. Colori forti e linee marcate che conferiscono alle sue opere un tratto quasi grafico.

Akka Project, tra Africa, Dubai e Venezia

Akka Project è una galleria d’arte con sede a Dubai e Venezia che ad Art Dubai ha proposto artisti del Mozambico, un Paese dilaniato dalla guerra civile dal 1977 al 1992 e che dal 2016 è stato travolto da una crisi economica che ha impoverito le casse dello Stato e fatto emergere scandali finanziari, riciclaggio di denaro sporco, corruzione e tangenti.

Si fanno notare le sculture di Goncalo Mabunda, per la potenza dei materiali utilizzati, armi e munizioni recuperate dopo la guerra civile in Mozambico che, attraverso la sua sensibilità artistica si trasformano in troni o maschere di straordinaria forza espressiva.

Il trono rappresenta il potere e il fatto che sia realizzato con proiettili e parti di fucili e mitragliatrici è un messaggio di denuncia sociale e di critica della classe politica del suo Paese.

“Mabunda è contro la guerra e sostiene che ogni proiettile utilizzato per le sue opere d’arte è un proiettile sottratto al mercato delle armi” dice Lidija Kachatourian, proprietaria della galleria.

Filipe Branquinho è un altro artista del Mozambico che fa della denuncia sociale la sua cifra stilistica, con la sua serie The School of Fish, ribattezzata The School of Thieves, come mi spiega la Kachatourian. Le maschere della tribù Maconde si fondono ai volti di politici e personaggi influenti responsabili della corruzione che attanaglia il Paese. Così dallo scandalo dei cosiddetti “tuna bond” da 2 miliardi di dollari, che ha coinvolto il governo del Mozambico e Credite Suisse, arrivano i pesci che denunciano il sistema di potere che non mette al centro gli interessi della popolazione ma il proprio tornaconto. Il giovane Kelechi Nwaneri, originario della Nigeria, sempre rappresentato da Akka Project, ha spopolato ad Art Dubai vendendo due opere in due giorni. 

Le curvature infinite

Alla Galleria Ronchini colpiscono le sculture in marmo di Gianpietro Carlesso. “La tecnica è molto particolare. L’artista parte da un singolo blocco di marmo e con strumenti tradizionali, a mano, raggiunge l’effetto finale, senza robot, laser, o qualsiasi tipo di attrezzo meccanico” racconta Lorenzo Ronchini.

Usando scalpello e martello Carlesso produce pochissime opere nell’arco di un anno perché, per realizzare sculture come quelle presentate ad Art Dubai, gli occorrono dai tre ai quattro mesi. Forme sinuose, un elegante gioco tra pieni e vuoti. “L’artista la chiama curvatura, ma di fatto è un lavoro sull’infinito perché non ci sono né un punto di partenza, né uno di arrivo -mi dice Lorenzo Ronchini- Non si sa da quale parte guardare l’opera perché da ogni angolazione cambia. Non c’è un verso”. Carlesso utilizza prevalentemente marmo di Carrara pregiato e marmo di Lasa sulle Dolomiti, pietra che ha la caratteristica di essere completamente bianca. 

Riflessi e la natura creatrice

La Galleria Continua ha opere che catturano l’attenzione dei visitatori, come il lavoro di Anish Kapoor realizzato in acciaio e resina, Random Triangle Mirror del 2019. Non c’è stato visitatore che non abbia scattato selfie o girato video davanti a quello specchio curvato e sfaccettato che, al di là della superficie accattivante, riesce ad instaurare con chi lo osserva un dialogo intimo e profondo.

“È un’opera particolare perché cambia muovendosi anche solo di un centimetro e vive con il nostro movimento. Fa pensare anche alla relatività di Albert Einstein -mi spiega Lorenzo Fiaschi– Ci sono la luce, il buio, il movimento, la velocità, la riflessione, il pensiero, la spiritualità, è un lavoro molto universale”. La forza delle opere di Kapoor è quella di saper essere molto trasversale, universale, di riuscire a toccare le corde della sensibilità umana arrivando fino all’anima.

È un lavoro esperienziale, che ti assorbe. Infatti mettendovisi davanti se ne diventa partecipi. Uno dei tratti distintivi della Galleria Continua è la multiculturalità e la diversità. La tela a grande campitura che domina lo stand cattura per la particolarità con cui il colore acrilico prende strane increspature. “È un dipinto di José Yaque, pittore cubano, che realizza superfici dipinte con l’aiuto delle forze della natura, ossia gravità e vibrazioni” sottolinea Fiaschi. Una casualità il colore scelto, a Cuba non sono disponibili tutti i pigmenti, come pure i movimenti della Terra che intervengono nella realizzazione dell’opera. Quando la pittura è ancora umida l’artista avvolge il quadro con pellicola di plastica trasparente ed è per questo che si crea un effetto di pieghe e increspature. La plastica viene tolta una volta che il colore è asciutto dando un effetto al tempo stresso naturale e artificiale. Questa opera rappresenta la formazione della Terra e infatti sembra marmo.

Il messaggio sotteso è che “la bellezza di questi motivi non è possibile riprodurla con un pennello, solo la natura può farlo  -dice Lorenzo Fiaschi- e questo dimostra che la natura è più forte dell’uomo e andrebbe rispettata”. 

Il paradosso dell’era dell’iper-connessione

La Galleria Giorgio Persano di Torino propone nomi consolidati del panorama artistico tra cui Michelangelo Pistoletto, con un’opera tra le più ammirate e fotografate dai visitatori di Art Dubai: Smartphone – donna seduta e uomo in piedi del 2018.

“Piace per l’impatto della riflessione sullo specchio ma anche perché è un documento storico a tutti gli effetti, una fotografia del nostro presente” mi racconta Guglielmo Hardouin. Un’opera che vince nella sua immediatezza. Pistoletto pur essendo un artista concettuale ha una notevole forza comunicativa. L’interazione tra pubblico e artista è straordinaria. Realizzato per una mostra del 2018 per la galleria stessa, dal titolo Comunicazione, è la rappresentazione del paradosso che viviamo nel mondo contemporaneo in cui due persone stanno comunicando ma al tempo stesso sono completamente isolate. L’era dell’iper-connessione in cui siamo tutti immersi, produce indubbi vantaggi e progresso, ma ha ha l’esito paradossale di produrre anche il suo contrario, cioè l’isolamento. “La perdita della capacità umana di comunicare, di guardarsi negli occhi, di prendersi per mano, la viviamo ogni giorno -dice Hardouin- La vediamo in tutti gli spazi pubblici in cui troviamo tante persone costantemente intente a comunicare pur essendo totalmente slegate fra di loro” pur essendo distanti da chi condivide il qui e ora con loro.

“Abbiamo portato una selezione abbastanza classica, con una serie di artisti che rappresentiamo già da molti anni, quali Costas Varotsos, Mario Merz, Per Barclay, Michael Biberstein, ad eccezione di Zena El Khalil, artista libanese che vive a Londra, la più giovane e quella che collabora da meno tempo con noi” conclude Hardouin. Zena El Khalil seduce con la sua action painting fatta di rituali salvifici e performance che si sigillano con tele di grande intensità.

In esse l’artista imbriglia l’energia positiva evocata attraverso mantra, danze, canti, con l’ambizione di riuscire così a curare il mondo. Una sublimazione della sofferenza e del dolore causati dalle guerre che si trasforma in esplosioni di colore. 

Murakami, Kapoor, Kusama, Dine e non solo

La Galerie Perrotin ha portato nomi di spessore del panorama artistico internazionale da Takashi Murakami ad Anish Kapoor, da Keith Haring ad Hans Hartung, da Xavier Veilhan a JR.

Una vera calamita che ha attratto i visitatori è stato Monochrome (Blue Matt) di Anish Kapoor.

Un’opera che fa parte della serie Void del 2014, che seduce per la sua grande profondità.

La Custot Gallery ha forse realizzato il maggior numero di vendite, con una selezione di artisti che spaziava dalla nuova generazione di pittori britannici a Yayoi Kusama. Alla Galerie Templon colpiscono soprattutto tre artisti: Jim Dine, Kehinde Wiley, Ivan Navarro. Kehinde Wiley, pittore americano nato a Los Angeles ma di origini senegalesi, vive tra Dakar e New York. Ritrae solo persone comuni, non famose e di colore, dietro alle quali inserisce sempre sfondi con elementi floreali. Wiley, però, è diventato famoso per aver fatto il ritratto di Barak Obama nel 2018 per la National Portrait Gallery di Washington, unica eccezione alla serie di volti anonimi che popolano i suoi ritratti. “Wiley riprende l’impianto compositivo dei grandi maestri come Rembrandt, Velasquez, Gainsborough, con l’idea di magnificare la bellezza di questa gioventù globalizzata” mi dice Anne-Claudie Coric, Direttrice esecutiva.

Esposto ad Art Dubai il ritratto della sua assistente realizzato mentre si trovava in Senegal durante il lockdown. Ivan Navarro, artista concettuale cileno, ha lasciato il Cile vent’anni fa per trasferirsi a New York. Utilizzala la luce come mezzo espressivo. “È nato e cresciuto in Cile durante la dittatura di Pinochet, ecco perché le sue opere mostrano sempre la sua personale esperienza di queste due culture, cilena e americana, usando un linguaggio che riprende minimalismo, modernismo, formalismo” aggiunge la Coric.

Il lavoro proposto ad Art Dubai è Clown che riprende l’elemento delle losanghe presente sui costumi dei pagliacci ed è una riflessione sull’idea di spettacolo e intrattenimento come tentativo di evasione che, tuttavia, si rivela illusoria. My Soul, You Thought del 2021 realizzato con colore acrilico e sabbia su lino, è l’opera di Jim Dine presente nello stand della Galerie Templon.

Un dipinto che l’artista americano ha prodotto a Parigi dove ha uno studio. È uno dei suoi motivi iconici, il cuore, che è al tempo stesso un autoritratto e una metafora della creazione. Colorato, ironico, incisivo, accattivante, comunicativo, lo stile di David Shrigley , presente con un suo stand.

L’artista scozzese ha saputo far sorridere e riflettere sulle contraddizioni e i problemi cogenti del mondo contemporaneo con il suo raffinato sense of humor e il suo stile in bilico tra grafica pubblicitaria e cartoon. 

Big Foot esiste?

Gioioso, colorato, divertente l’artista lituano Tomas Dauksa, rappresentato da The Rooster Gallery di Vilnius. Con le sue opere, sculture e installazioni, Dauksa è interessato ad analizzare il momento in cui si inizia a credere in qualcosa. Come le convinzioni si formino e perché si inizi a credere in qualcosa.

Esplora e cerca a di definire il confine tra conoscenza e credenza. Qual è il meccanismo che ci spinge a credere? Credere è frutto di un processo conoscitivo oppure è la conseguenza di un convincimento? Un tema molto attuale, connesso al fenomeno contemporaneo delle fake news e del dilagare di teorie negazioniste.

Chiedo a Tomas Dauksa perché abbia scelto proprio Big Foot: “È diventato una sorta di medium per indagare la genesi delle convinzioni. Si tratta di un’idea preconcetta non di impegno politico, non ci si rapporta con fatti sociali o politici, ma pure idee”.

Così, anche grazie alle sue opere, abbiamo “la libertà di andare avanti, liberando il nostro pensiero dai pregiudizi che lo limitano e lo intrappolano -conclude Tomas Dauksa– Spesso le nostre emozioni oscurano la nostra parte razionale, lo vediamo anche nell’attuale situazione politica mondiale”.