Dubai, aiuti umanitari e COVID19

Le crisi umanitarie non conoscono tregua e la pandemia rischia di acuirle. A Dubai si è discusso del modo più efficace per aiutare i Paesi bisognosi. Associazioni benefiche, organi decisionali, ONG e istituzioni si sono riuniti nel corso della 17esima edizione della DIHAD, Dubai International Humanitarian Aid and Development Conference, per devolvere aiuti umanitari e sanitari in Africa adottando le strategie più efficaci. 5.300 partecipanti, 640 tra organizzazioni pubbliche e private, 467 incontri B2B, più di 84 Paesi partecipanti, 48 speaker di famose organizzazioni umanitarie intervenuti alla tre giorni di dibattiti e workshop.

Quest’anno lo sceicco Mohamed bin Zayed Al Nahyan, Principe ereditario di Abu Dhabi e Vice Capo supremo delle Forze Armate degli Emirati, è stato insignito dell’onorificenza “2021 DIHAD International Personality Award for Humanitarian Relief”. La motivazione del premio è il continuo supporto dato all’organizzazione di aiuti umanitari a livello internazionale, con particolare enfasi per gli sforzi compiuti nel combattere il coronavirus anche con iniziative quali Waterfalls che punta a garantire circolazione delle informazioni e formazione a milioni di medici e paramedici. Un riconoscimento ritirato dallo sceicco Saif bin Zayed Al Nahyan, Vice Primo Ministro e Ministro dell’Interno.

La cooperazione a livello internazionale è alla base di interventi capaci di portare reale beneficio alle popolazioni bisognose del continente africano. Le azioni isolate non riescono ad essere risolutive. Per essere incisivi è necessario uno sforzo corale, ben strutturato, che veda lavorare fianco a fianco settore pubblico e privato, come mi spiega Giuseppe Saba, CEO dell’International Humanitarian City (IHC) di Dubai. “Bisogna essere estremamente chiari: lavorare insieme non è un’opzione, è un obbligo. Nel mio precedente incarico alle Nazioni Unite e oggi che lavoro per il governo di Dubai, con una posizione eccezionale per uno straniero, ci sono indubbiamente due elementi che sono imprescindibili: lavorare insieme ed inglobare all’interno del lavoro umanitario anche il settore privato”. Vediamo insieme attraverso gli esperti e i responsabili umanitari di alcuni Paesi africani quali sono le indicazioni emerse per affrontare le sfide del futuro, dal coronavirus alle vaccinazioni, dai cambiamenti climatici alle emergenze preesistenti alla pandemia in Africa. 

Pubblico e privato insieme per il bene comune

Le istituzioni a livello mondiale si sono trovate a confrontarsi con un’emergenza senza precedenti. Quale impatto ha avuto tutto questo sul settore umanitario si manifesta in modo evidente nell’opera di sostegno messa in atto dalla IHC, l’hub per le emergenze umanitarie istituito nel 2003 dallo sceicco Mohamed Bin Rashid Al Maktoum, Vice Presidente e Primo Ministro degli Emirati e sovrano di Dubai. “In genere siamo abituati a rivolgerci ai governi, e i governi possono essere estremamente generosi, però dobbiamo anche essere coscienti che in questo momento i governi hanno molti problemi -mi dice Giuseppe Saba, CEO dell’International Humanitarian City (IHC)– Ciò che ho provato di sensazionale in questi ultimi 12 mesi è aver visto il settore privato venire da me per chiedermi come poter lavorare insieme, come fosse possibile aiutarci.” Ma la pandemia ha creato anche ulteriori nuove sfide, come ad esempio il trasporto dei vaccini contro il coronavirus che presenta difficoltà logistiche e pratiche.

“Quando parliamo di vaccini è vero che in un frigorifero possono starci qualche centinaio di dosi, ma a quello bisogna aggiungere una montagna di siringhe con cui iniettarlo. È per questo che abbiamo bisogno degli altri. Noi stiamo gestendo a Dubai l’hub umanitario più grande al mondo, con ben 130mila metri quadrati di spazi. Però nonostante tutto non siamo in grado di far fronte a tutta questa enorme richiesta. Ecco perché abbiamo bisogno di lavorare con DP World, con gli aeroporti di Dubai, con Emirates Sky Cargo” rilancia Saba. Durante il periodo più critico della pandemia gli Emirati hanno messo a disposizione a tempo pieno due aerei militari che sono andati in giro per il mondo, facendo voli dal Belgio alla Cina, distribuendo aiuti umanitari e sanitari quando i trasporti aerei erano paralizzati. Ancora adesso l’IHC utilizza molti aerei passeggeri della Emirates per effettuare consegne di materiale sanitario e aiuti. 

A Dubai l’hub umanitario più grande del mondo

La posizione geografica di Dubai rende l’emirato un hub di importanza strategica anche sotto il profilo umanitario. “In poche ore di volo riusciamo a servire due terzi della popolazione mondiale, perché Dubai si trova tra Asia, Medio Oriente e Africa -mi racconta Giuseppe Saba– E non sono i due terzi della popolazione mondiale che in genere vive tranquilla e serena, ma una parte di mondo in cui storicamente si verificano catastrofi naturali quali tsunami, terremoti, inondazioni, eruzioni vulcaniche. Quindi era quasi nell’ordine delle cose che questo hub umanitario fosse destinato a crescere esponenzialmente diventando il più grande del mondo”.

Quando chiedo a Giuseppe Saba se l’IHC è pronta per affrontare nuove emergenze e pandemie conclude così: “Avevamo un piano triennale che il board aveva approvato alla fine del 2019. Il mio piano triennale l’ho realizzato nel 2020 in tre mesi, perché a quel punto in piena pandemia non c’era tempo da perdere. Siamo andati avanti, stiamo lavorando e vorremmo diventare sempre più professionali, non per noi stessi ma per condividere ciò che stiamo facendo insieme a tutti gli altri hub del mondo. Per noi è importante dialogare con gli altri”. Non ultimo anche con il polo logistico e di intervento umanitario delle Nazioni Unite di Brindisi che nell’arco di più di vent’anni è cresciuto affermandosi come uno degli hub strategici a livello internazionale, facendo da apripista ad altri sei Paesi, tra cui Panama, che ospitano analoghi centri logistici.

Le necessità di chi ha bisogno contano

È importante dare a chi ha bisogno ciò di cui necessita realmente e non quello che noi riteniamo essere più giusto. Per questo bisogna sapere ascoltare i bisogni delle popolazioni e non intervenire con un sostegno che si basi esclusivamente su idee preconcette.

“Non c’è niente di meglio della presenza. Sedersi accanto alle persone e ascoltare la loro voce. Andare dalla gente -mi dice Ann Encontre, Rappresentante dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) in Etiopia- Noi spesso siamo seduti nei nostri uffici, seguiamo i nostri progetti e poi cerchiamo di implementarli. Sicuramente tutto questo è importante e porta ad ottenere delle vittorie ma il successo pieno lo si ottiene quando la gente viene coinvolta, per individuare cosa in concreto desideri per se stessa”. Dialogando in modo costruttivo e senza pregiudizi o convinzioni aprioristiche si scopre che ciò di cui hanno maggiormente bisogno le donne sono prodotti sanitari e istruzione per i propri figli. “Sapone e non necessariamente olio o riso -mi spiega Ann Encontre- A volte le donne hanno più bisogno di deodorante e di prodotti per l’igiene personale. Questi pacchi con generi di prima necessità sono soprattutto pieni di cibo, vi si trova dal sale allo zucchero, alla farina. Però talvolta un po’ di contanti possono rappresentare una soluzione migliore. Per capire occorre passare del tempo accanto a loro”. Infatti le donne comunicano molto bene con altre donne, perché non si sentono intimidite e dopo aver trascorso del tempo con loro i veri bisogni emergono. “Se ci si impegna con la comunità ci si trova a definire programmi migliori, che si adattano davvero ai loro reali bisogni, che durano nel tempo e che sono molto più apprezzati. Una strategia che ci porta a creare progetti più duraturi e che funzionano meglio” conclude Ann Encontre. 

Leadership e digitalizzazione trainano il cambiamento

La pandemia ha contribuito a dischiudere molte opportunità per l’Africa. La questione della leadership è un tema importantissimo perché la popolazione può trarre beneficio solo da una guida capace. “I leader africani hanno stabilito misure preventive volte a contenere la curva dei contagi -afferma Caroline Kisia, ex Direttore Esecutivo di Action Africa Help International (Nairobi)- Invece di sedersi ad un tavolo e discutere sulla migliore soluzione a livello teorico, hanno affrontato in modo molto pragmatico il coronavirus, con azioni concrete. Ma per guardare al futuro è necessario un definitivo cambio di atteggiamento. Per troppo tempo c’è stata una dipendenza dai Paesi occidentali e da ideologie occidentali. Solo attraverso soluzioni create internamente si può fare la differenza sul nostro continente. I leader africani devono riuscire a compiere passi concreti in questa direzione”.

Secondo Caroline Kisia una leadership saggia deve anche riuscire a sapersi slegare dai vincoli di sudditanza psicologica, da una forma di colonialismo contemporaneo. Se da un lato i leader devono dimostrare pragmatismo e mettere al primo posto l’interesse e il bene della popolazione, dall’altro è fondamentale il tema dell’inclusione. “Quando le donne sono escluse dalle stanze dei bottoni, dai processi decisionali, vuol dire che non si considera una prospettiva importante, soprattutto nel settore della sanità” evidenzia Caroline Kisia. Le donne rappresentano il 70% della forza lavoro in ambito medico-sanitario, ma ricoprono appena il 25% delle posizioni di comando. E che le donne diano valore aggiunto alla leadership secondo Kisia è dimostrato dalle decisioni più umane ed empatiche prese nel corso di questa pandemia in quei Paesi a guida femminile. La chiave per eliminare la dipendenza dell’Africa dall’Occidente è incentivare la produzione domestica di equipaggiamenti e ancor più significativo sarebbe poter produrre i vaccini contro il Covid-19. “Sarebbe necessario uno sforzo coordinato per poter realizzare una produzione vaccinale locale -prosegue Kisia- Così anche quando il sistema di approvvigionamento e trasporto dovesse entrare in crisi, le vaccinazioni continuerebbero ad essere disponibili per la popolazione. La velocità con cui gli interventi per contenere il Covid-19 sono stati attuati è straordinaria. Ma buona parte di quegli interventi sono stati possibili perché i Paesi ricchi, sono stati colpiti dalla pandemia”.

Caroline Kisia mi fa notare quanto sarebbe importante se quella stessa tempestività di interventi e quel dispiegamento di tecnologie con cui si è fronteggiato il coronavirus fossero messi in campo per creare vaccini contro HIV, AIDS, malaria, o per ottenere trattamenti contro malattie dimenticate che affliggono l’Africa da molti anni, come ad esempio Ebola. Altro snodo essenziale innovazione e digitalizzazione. Dalla produzione dell’ossigeno a livello locale, che offre un’opportunità di approvvigionamento nelle strutture sanitarie alla metà del prezzo rispetto all’ossigeno importato, ad un sistema di trasferimento di denaro mobile che è stato anche esportato nel resto del mondo, per ridurre i contatti e gli scambi di denaro fisico, fino all’uso della tecnologia blockchain per gestire le informazioni sui pazienti, i referti degli esami e le cartelle cliniche, questi sono soltanto alcuni esempi delle innovazioni che possono essere prodotte servendosi di risorse interne. “Usare bene le tecnologie che sono già disponibili può fare la differenza e al tempo stesso dovremmo riuscire ad avvalerci meglio delle capacità e del talento dei nostri giovani per migliorare la vita dei nostri Paesi” conclude Caroline Kisia.

Quel gap tra bisogni umanitari e risposte 

Ciò che è emerso a Dubai nei tre giorni di confronto tra esperti del settore umanitario è che le crisi politiche non vengono risolte grazie alla beneficenza, ma solo attraverso risposte concrete ai problemi sociali ed economici. “Ciò che vediamo nel mondo contemporaneo è che le crisi si protraggono per troppo tempo e non vedono soluzione dopo molti anni e un senso di sfiducia nel sistema internazionale è ormai un dato di fatto -sottolinea Patrick Youssef, Direttore regionale per l’Africa del Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC)– Ecco perché la Croce Rossa tende ad essere un’organizzazione localizzata, lavorando con Croce Rossa e Red Crescent in giro per il mondo. Il contributo che la DIHAD può offrire, è che tutti lavorino in cooperazione, creando partnership che portino soluzioni durature. Questo è ciò di cui c’è bisogno e ciò che io intendo quando parlo di portare un impatto umanitario sostenibile”.

I problemi politici non possono essere risolti dal sostegno umanitario. “Ci troviamo in situazioni in cui il più delle volte applichiamo un cerotto su ferite infette. Questo tipo di ferite, però, può essere risanato solo con decisioni sociali, economiche e politiche -mi racconta Youssef- Come vediamo ad esempio in Libia, dove un governo di unità nazionale, subito dopo la sua costituzione ha adottato molte decisioni di natura umanitaria con un miglioramento della vita delle persone”. Un intervento umanitario sostenibile è quello che genera speranza, più opportunità di occupazione, che può portare le persone a pensare allo sviluppo come ad un modo concreto per uscire dalla dipendenza. Il vero cambio di passo si può ottenere solo dimostrando che la via d’uscita è “smettere di aspettare di ricevere sulla propria porta di casa un pacco di riso o di farina -rilancia Youssef- Questo senso di urgenza è importante, più si dice alle persone che sono loro stesse attori del cambiamento, più vediamo che il divario tra i bisogni umanitari e le risposte si riduce”.

Gli fa eco Jebamalai Vinanchiarachi, ex Consigliere del Direttore Generale dell’UNIDO: “La povertà non può essere eliminata dalla carità ma solo dalla creazione di benessere, di prosperità. E il benessere lo si può raggiungere soltanto favorendo le competenza e la capacità di utilizzo delle moderne tecnologie per accrescere la conoscenza. Non ci sono altre possibili soluzioni alla povertà”.