In Libano la rivolta prosegue. Dopo quasi due settimane di proteste e una mobilitazione popolare senza precedenti il Primo Ministro libanese Saad Hariri ha annunciato le proprie dimissioni. Un passo indietro tardivo, che non placa i manifestanti. Però il rischio che i moti di piazza pacifici possano trasformarsi in scontri e sfociare nel sangue sono più che concreti. Hariri, alla guida di un governo di unità nazionale in carica dal dicembre 2016, aveva promesso di far approvare dal Consiglio dei Ministri un piano di riforme economiche.
Queste misure, concesse in extremis, non hanno convinto la folla a fermare la protesta che sta paralizzando da giorni l’intero Paese, portandolo sull’orlo del collasso. Hariri rimette il suo incarico, decretando così la fine dell’esperienza di governo e sciogliendo l’esecutivo che vedeva in coalizione anche gli Hezbollah, partito politico islamista sciita molto vicino all’Iran e alla Siria, i cui sostenitori hanno scatenato disordini scontrandosi con i manifestanti anti-governativi in Piazza dei Martiri a Beirut. Vediamo insieme gli ultimi sviluppi di quella che i dimostranti scesi in piazza hanno definito la rivoluzione libanese.
Nasrallah fa sentire la sua voce
A fronte dei disordini provocati dai suoi militanti e da sostenitori del Movimento Amal (il partito sciita libanese con la maggiore rappresentanza in Parlamento), il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, in un appello trasmesso dalla tv pubblica, ha lanciato un monito perché la protesta abbia fine. Per Nasrallah questa dimostrazione di piazza che dura da molti giorni porterà inevitabilmente ad un vuoto politico che potrebbe generare caos e far scoppiare persino una guerra civile. Nel suo discorso Nasrallah ha invitato i propri militanti ad abbandonare le strade, richiesta immediatamente esaudita anche grazie all’incalzare della polizia che ha utilizzato gas lacrimogeni.
Per quanto la protesta resterà pacifica?
Un segno evidente delle divisioni politiche e religiose che, malgrado questa straordinaria mobilitazione senza colori, continuano a minare l’unità del Libano. La linea che separa una rivolta pacifica dallo scontro violento è molto sottile. Sta ai libanesi decidere se varcarla o meno, trascinando in un conflitto armato un Paese con un debito pubblico pari al 152% del PIL, il terzo più alto del mondo dopo Giappone e Grecia. Una situazione finanziaria disastrosa, diventata tale anche per gli immensi costi della ricostruzione successiva alla guerra civile, combattuta tra il 1975 e il 1990. Un Paese dall’economia fragilissima sostenuto anche dagli ingenti trasferimenti di denaro provenienti dalla diaspora.