Una delle prime moschee progettate da un architetto donna, Sumaya Dabbagh, anima con linee essenziali e delicati giochi di luce un’area industriale di Dubai. La Dabbagh, titolare dello studio di architettura Dabbagh Architetcts, l’unico ad essere gestito da una donna in Arabia Saudita e uno dei pochi nella regione del Golfo, ha realizzato un luogo di culto che esprime un’estetica raffinata e minimalista, reinterpretando in chiave contemporanea motivi geometrici islamici. Un piccolo gioiello di forme, volumi, luce, purezza e semplicità, che si inserisce nel paesaggio urbano del trafficato quartiere di Al Quoz come un’oasi di pace e spiritualità, diventando un punto di raccoglimento e calma in una metropoli tentacolare che vive seguendo ritmi frenetici.
Nel mese sacro del Ramadan la moschea dedicata alla memoria di Mohamed Abdulkhaliq Gargash, patriarca di una delle famiglie più influenti di Dubai e degli Emirati, venuto a mancare nel 2016, sembra ancor più ieratica, con la scelta dei materiali locali che ne esaltano ulteriormente candore e luminosità. Ogni cosa sembra parlare del territorio in cui sorge il luogo di culto: la pietra bianca proveniente dall’Oman, cemento, alluminio, rivestimenti, falegnameria e ceramiche, tutti prodotti emiratini. Il design del progetto sembra delineare un ideale percorso dei fedeli che passano dalle abluzioni alla preghiera guidati attraverso un graduale allontanamento dalla mondanità per recuperare concentrazione e pace interiore necessarie al raggiungimento della dimensione spirituale. Scopriamo di più sulla moschea e sull’architetto donna che ha ideato e firmato il progetto.
Un’esperienza spirituale tra elementi geometrici e calligrafici
Pulizia, rigore, semplicità, questo il mandato dei committenti della famiglia Gargash. Una posizione antitetica a quanto solitamente richiesto da chi commissioni una moschea, che deve tradurre visivamente status e opulenza di chi commemora. Così la creazione architettonica di Sumaya Dabbagh punta all’essenza e alla linearità, riproponendo motivi geometrici triangolari che traforando la pietra consentono alla luce del sole di penetrare all’interno degli ambienti dedicati alla preghiera, mantenendoli al tempo stesso freschi. Una Sura, un verso del Corano, avvolge i muri esterni come fosse un nastro, accentuandone la dimensione sacrale. Si tratta del brano “Il più misericordioso”, scritto interamente in saj’, una prosa in rima con accenti particolari, caratteristica dell’antica poesia araba. Vi si parla del sole, della luna, delle stelle e anche del paradiso. L’edificio creato dalla Dabbagh è pieno di poesia e vi si percepisce una profonda fedeltà alle intenzioni iniziali volute dai committenti. La componente emozionale e sentimentale, forte ed evidente, rende l’impronta architettonica ancor più marcata. Le linee essenziali fatte di trafori, geometrie, calligrafia, giochi di luci e ombre, sole filtrato, pieni e vuoti, chiarore e nitore, rendono magico questo luogo di culto che si staglia contro il cielo azzurro, illuminato dall’abbagliante sole mediorientale.
Un invito alla preghiera
La moschea ha una struttura che si compone di due corpi e presenta un inconsueto minareto staccato, che crea un volume separato. Da una parte c’è il blocco delle preghiere, sormontato dalla cupola, con la zona per gli uomini e quella per le donne. Poi c’è l’area preposta alle abluzioni, in cui ci si sfilano le scarpe e si procede con il rituale del lavaggio che aiuta a conquistare uno stato d’animo adatto alla comunicazione con il trascendente. Questa zona è costituita da un cortile sormontato da una tettoia aerea e anch’essa traforata che unisce idealmente l’altro blocco con le residenze dell’Imam e del Muezzin. La luce che filtra attraverso la tettoia crea un’atmosfera sacrale al cortile che sembra sormontato da una tenda i cui lembi non si uniscono completamente, contribuendo ad enfatizzarne la leggerezza, in un bellissimo gioco di pieni e vuoti, luci e ombre. Anche grazie all’elemento triangolare traforato, che alleggerisce l’esterno e consente alla luce di insinuarsi all’interno, l’edificio acquista ariosità e stabilendo idealmente una connessione con il trascendente, favorendo così la preghiera e la vicinanza al divino. “Le preghiere musulmane si recitano durante la giornata ad orari precisi: alba, mezzogiorno, metà pomeriggio, tramonto, al calar della sera -racconta l’architetto Sumaya Dabbagh– Questa disciplina crea una connessione dell’uomo con il ritmo naturale del giorno e della notte. Un’esperienza ricreata anche attraverso il design della moschea che cerca di favorire questa connessione servendosi della luce naturale che penetra all’interno grazie a un sistema di aperture che ne controlla intensità e quantità”.
Più donne chiamate a realizzare edifici pubblici
“Alla fine di ogni mio progetto spero sempre che ciò che ho costruito evochi sentimenti, susciti emozioni, come nella fase di ideazione. C’è un momento magico in cui un edificio nasce e reclama il diritto ad esistere, animato di vita propria. Per la mia prima moschea questo momento è stato particolarmente commovente -dichiara l’architetto Dabbagh- Mi sono sentita enormemente fortunata ad aver potuto creare uno spazio sacro che consente alle persone di incontrarsi e riunirsi per pregare insieme”. Con il Mleiha Archaeological Centre di Sharjah (2016) la Dabbagh ha vinto l’Architecture Master Prize (2020) e ha ricevuto la nomination agli Agha Khan Awards (2018). Attraverso il suo lavoro vuole superare il divario di genere e far sì che vengano scardinati pregiudizi e stereotipi sull’Arabia Saudita, sulla condizione della donna nel mondo arabo, favorendo con il proprio lavoro di architetto un cambiamento che porti ad avere sempre più donne chiamate a realizzare progetti di spazi pubblici. “Penso che più donne dovrebbero disegnare edifici pubblici, partecipando attivamente allo sviluppo delle nostre città -conclude Sumaya Dabbagh- Le donne sono molto brave a costruire comunità, a far stare insieme le persone, a collaborare e potrebbero dare un impulso molto positivo a tutto il settore”.