Mamadou l’ho incontrato un anno fa, in Croazia. Ero al seguito di un convoglio umanitario che portava aiuti ai rifugiati, in un campo sorto in maniera spontanea, nei pressi della stazione ferroviaria di Tovarnik, cittadina croata al confine con la Serbia. Mamadou era uno dei pochi migranti provenienti dall’Africa, in mezzo a migliaia di profughi siriani, iracheni e afghani. Mi aveva subito colpito, Mamadou, lo sguardo buono, pieno di fierezza. Si era avvicinato mentre distribuivamo vestiti e scarpe. Aveva freddo, cercava un cappotto che gli tenesse più caldo e lo proteggesse dall’umidità di una rigida notte d’inizio inverno, che minacciava pioggia da un momento all’altro.
La sua dignità, la sua compostezza, la sua gentilezza, avevano attirato subito la mia attenzione. Per questo ho iniziato a fargli qualche domanda e poi ci siamo scambiati numero di telefono e contatto via WhatsApp. Mamadou arriva dal Mali. Ma perché fugge da Bamako? E perché ha attraversato la rotta balcanica?
Il percorso attraverso i Balcani
La cosiddetta rotta balcanica era la via più facile per raggiungere l’Europa. L’aveva visto in tv, nel telegiornale, che riproponeva con cadenza quotidiana la cronaca del viaggio di tanti profughi che si riversavano attraverso i Balcani, cercando la salvezza nel Nord Europa.
Ecco perché Mamadou ha scelto di passare di lì. In Serbia c’è arrivato in aereo, da Bamako via Tunisi, munito di un regolare visto. Poi si è unito senza difficoltà ai migranti giungendo fino in Croazia, il giorno successivo.
Chi è Mamadou?
Mamadou ha 30 anni. È nato a Kinshasa, nella Repubblica Democratica del Congo, nel 1985, da mamma congolese e papà del Mali. Ha due figli piccoli: un maschietto di tre anni, che si trova a Parigi e una bambina di 18 mesi, ancora in Mali, con la mamma. Entrambe, spera lo possano raggiungere prima possibile. Lui sta facendo da apripista. La sua destinazione: la Francia, per riabbracciare suo figlio Daouda, che si trova a Parigi da alcune settimane, assieme a una zia. Ma perché Mamadou ha deciso di abbandonare il Mali?
L’orrore dell’infibulazione
Mamadou mi spiega che la sua è una storia complicata. È musulmano, ma è stato costretto a lasciare Bamako perché sua figlia Hawa rischia di essere infibulata. La comunità alla quale Mamadou appartiene osserva rigidamente questa pratica di mutilazione dei genitali femminili, inflitta alle bambine a partire dai 4 anni di età. Lui e sua moglie, sebbene di fede musulmana, non condividono la pratica dell’infibulazione, non vogliono questo per la loro piccola Hawa. Per questo fuggono.
Il piano di fuga
Non potevano partire tutti insieme. Così il primo a lasciare Bamako è stato suo figlio Daouda, con una zia. Volo diretto per Parigi, un biglietto per la salvezza e la possibilità di un futuro migliore in Francia. Quella di Mamadou è una corsa contro il tempo, deve farcela e quanto prima deve far scappare sua moglie Liela e la figlioletta Hawa.
È determinato, ha chiara la sua meta. Ci arriverà, a Parigi, è solo una questione di tempo. Mamadou ne è assolutamente certo, deve arrivare da suo figlio Daouda. Non può fallire. Non può rischiare di essere rispedito indietro.
Nell’inferno di Tovarnik
A Tovarnik sembra quasi di trovarsi in un girone dell’inferno dantesco. Saranno almeno 3.000 i migranti che si accalcano lungo i due binari.
Umanità sofferente che si ammassa tra rifiuti, coperte termiche abbandonate, resti di cibo. Attorno, 600-700 metri più in là, il campo allestito dai volontari.
Una tendopoli sorta a poca distanza dalla stazione ferroviaria, senza servizi, senza strutture, in aperta campagna.
Nella notte arriva anche un presidio di Medici Senza Frontiere. È qui, al campo, che Mamadou trova un riparo.
Dormirà in un capannone, dove i volontari hanno allestito un dormitorio. Sarà al sicuro, in una notte che fa presagire il peggio, tra lampi che squarciano il buio della notte.
La stazione come un girone dantesco
Il mattino seguente la stazione è un brulicare frenetico di uomini, donne, bambini. Sono tutti lì, compatti, attorno ai due binari della piccola stazione di Tovarnik. Aspettano il treno che li porterà verso la salvezza, verso l’Austria, la Germania, la Scandinavia.
All’arrivo del convoglio, di prima mattina, è come un’onda tumultuosa. Migliaia e migliaia di persone si riversano su quei due binari. Sono un fiume in piena. Bambini sulle spalle dei padri, mani che si agitano, urla di gioia, una moltitudine festante che corre per poter salire su quel treno, verso una nuova vita. Anche Mamadou salirà su uno di quei treni, dopo essere rimasto qualche giorno al campo.
Una telefonata nel cuore della notte
Quest’inverno, all’improvviso, nel cuore della notte, mi arriva una telefonata. È Mamadou. Non avevo più avuto sue notizie. Non sapevo più niente di lui. Alla fine è riuscito a raggiungere Parigi, pochi giorni dopo il nostro incontro a Tovarnik. Tanta fortuna per lui e per il suo piccolo Daouda, che ha potuto riaverlo accanto. Mamadou mi chiama perché ha bisogno di aiuto e non sa a chi altro chiederlo. “Mila, puoi aiutarmi? Mia moglie e mia figlia sono bloccate in Serbia. Sono trattenute dalla polizia, il loro visto scade tra una settimana. Puoi fare qualcosa? Puoi riuscire a farle arrivare qui a Parigi?”.
La rotta balcanica è bloccata
È un momento critico, quello in cui mi arriva la richiesta d’aiuto di Mamadou. La rotta balcanica è stata da poco sigillata. Anche l’Austria ha iniziato a erigere muri, ha bloccato il flusso dei migranti, creando drammatiche situazioni di stallo in Croazia e in Serbia. Uno scenario quasi di emergenza, esplosivo, con il rischio reale che altre cittadine lungo i confini austriaci si trasformino in una nuova Idomeni. Migliaia di profughi premono lungo il confine austriaco. Per loro, però, non c’è alcuna speranza di entrare. Il governo federale è stato chiaro: non passeranno più rifugiati, i controlli saranno capillari, il flusso va fermato.
Moglie e figlia trattenute in Serbia
Cerco di non illudere Mamadou, sono solo una giornalista, e sono anche lontana dalla Serbia, dove si trovano sua moglie e sua figlia. Posso provare ad attivare contatti, attraverso organizzazioni umanitarie, ma non posso promettere nulla. Sento il peso fortissimo della responsabilità di una donna e di una bambina indifese, in cerca di un futuro migliore. Avverto netto un senso di impotenza. Allerto tutte le mie conoscenze, dalle ONG alle istituzioni. Ed è proprio grazie alla Croce Rossa austriaca che si compie il primo miracolo. Mi forniscono il nome di un’associazione francese che lavora per il ricongiungimento familiare dei rifugiati. Lo faccio avere subito a Mamadou. Non c’è tempo da perdere, anche un minuto può fare la differenza.
Giorni contati, visto in scadenza
Malgrado il visto in scadenza, la macchina del ricongiungimento familiare dei rifugiati attivata dalla Croce Rossa francese inizia a mettersi in moto. La Croce Rossa austriaca e francese lavorano in tandem. Alla fine Leila e la piccola Hawa lasciano la Serbia e riescono a raggiungere Mamadou a Parigi. Ci siamo riusciti. Abbiamo compiuto il miracolo, abbiamo dato la salvezza e la speranza a una famiglia che rischiava di rimanere separata, forse per sempre.
Una famiglia di nuovo riunita
A darmi la notizia dell’avvenuto ricongiungimento è lo stesso Mamadou, via WhatsApp. Dopo giorni di silenzio mi spedisce una foto bellissima, che li ritrae tutti e quattro insieme, abbracciati e sorridenti. Sono finalmente tutti a Parigi, sani e salvi. Dopo mesi di attesa ha ottenuto un permesso di soggiorno di 10 anni e la piccola Hawa lo stato di rifugiata sulla base della Convenzione di Ginevra. Pian piano Mamadou spera di poter iniziare a lavorare nell’ambito del commercio delle automobili. Per ora c’è il sussidio di 682 euro mensili, ma entro breve provvederà lui stesso con la sua attività a sostentare moglie e figli. Ha molti progetti, Mamadou, e li perseguirà con la stessa salda determinazione con la quale ha deciso di abbandonare il Mali per offrire alla sua famiglia un futuro con maggiori prospettive, senza prevaricazioni e senza l’incubo di barbari retaggi tribali. E i suoi sforzi, certamente, saranno premiati.