Voto ungherese: un boomerang per Orbàn

Niente quorum. Il referendum ungherese sui migranti non passa. L’affluenza alle urne al di sotto del 50% (per la precisione 43,42%), gioca un brutto scherzo al leader nazionalista Viktor Orban, che tanto ha voluto e tanto si è adoperato per la vittoria del NO. Così, la contro-rivoluzione culturale, promotrice di un’identità cristiana, minacciata dal forte tasso di immigrati islamici, della quale il premier ungherese si è fatto promotore all’interno dell’Ue, subisce un colpo inatteso. E a nulla, o a poco serve la percentuale con la quale si è espresso chi è andato a votare: il 92% degli elettori si è pronunciato a favore del NO, a sostegno della linea politica del premier, ovvero contro la ripartizione in quote dei migranti imposta agli stati membri dall’Unione europea. Che la campagna referendaria non stesse prendendo la piega voluta, a dispetto degli oltre 14 milioni di euro spesi dai suoi promotori, è apparso evidente quando recatosi al seggio, Viktor Orban, ha dichiarato che al di là del raggiungimento del quorum, avrebbe contato il parere espresso dalla maggioranza dei votanti. Di fatto un tentativo, fin troppo scoperto, di mettere le mani avanti, prima di un risultato negativo.

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La vera incognita era, infatti, l’affluenza alle urne. La disaffezione verso la politica da parte dell’elettorato è sempre più evidente, in tutti i Paesi dell’Ue, e anche l’Ungheria non sembra esserne esente. Però, sarebbe molto azzardato pensare che tutti coloro che hanno disertato le urne siano europeisti convinti e accesi sostenitori di una politica delle porte aperte agli immigrati

Orban e il braccio di ferro con l’Ue

Questo referendum aveva estremo valore per Viktor Orban. Innanzitutto era un modo per il premier magiaro di mostrarsi rafforzato a Bruxelles, presentandosi come l’uomo forte, in grado di dettare le proprie condizioni in materia d’immigrazione, grazie a un mandato popolare a suo sostegno. Eppure, anche se il premier nazionalista ungherese promette conseguenze giuridiche, dicendo di voler cambiare la costituzione per rendere più difficile qualsiasi ingerenza e imposizione da parte dell’Unione europea in materia d’immigrazione, la sua posizione oggi appare evidentemente indebolita.

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Prove tecniche di Huxit

In molti hanno considerato questo referendum una prova generale di Huxit, ovvero di uscita dell’Ungheria dall’Ue, sulla scia della Brexit. È indubbio che il risultato deludente del referendum incrini fortemente qualsiasi ambizione in tal senso da parte dell’Ungheria. A nulla, o quasi, serve il riavvicinamento che già da anni ha attuato il premier ungherese con la Russia di Putin, che non fa mistero di voler scardinare l’Unione europea. Certamente questo referendum è un segnale preoccupante che Bruxelles non può e non deve ignorare. Sono sempre di più e sempre più potenti, le spinte euro-scettiche, anti-migranti, ultra-nazionaliste ed estremiste in molti stati membri dell’Unione, che vedono sempre meno di buon grado che, una classe politica non direttamente eletta, sia legittimata a dettar legge su questioni che hanno un impatto diretto sulla sovranità nazionale.

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Far parte dell’Ue, non un rapporto a senso unico

Ad oggi l’Ungheria ha fruito a piene mani dei finanziamenti erogati dall’Ue, per creare infrastrutture e sostenere la propria economia. Ma far parte dell’Unione non può essere un rapporto a senso unico. Finora nessuno dei 1.294 migranti, la cui ricollocazione spetterebbe all’Ungheria, è stato accolto. Nessuno dei quattro Paesi di Visegrad -ovvero Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia– sostenitori della “solidarietà flessibile”, al momento si è preso carico della quota di rifugiati che spetta loro. E non sono gli unici a latitare su questo fronte, a scapito di Grecia e Italia. L’Austria, a tratti, si è trovata sulla stessa lunghezza d’onda con i quattro di Visegrad, su temi quali la chiusura della rotta balcanica e la costruzione di barriere e muri anti-migranti. Oggi, però, Vienna ha un contenzioso aperto con Budapest, che non vuole riprendersi indietro quei migranti registrati nei mesi scorsi sul proprio territorio, contravvenendo ai principi della Convenzione di Dublino.

Referendum e motivazioni interne

Questo referendum, la cui campagna è stata giocata tutta sulla paura del diverso, su istanze xenofobe e verità distorte, doveva servire a Viktor Orban per fare la conta dei propri sostenitori e per guadagnare voti in più, in vista delle prossime consultazioni elettorali. Contrariamente a quanto il premier nazionalista si aspettava sono stati dalla sua parte poco più di 3 milioni di ungheresi. Di fatto la somma degli elettori di Fidesz, il partito di Orban, più quelli di Jobbik, la formazione di estrema destra. Un bilancio nel complesso piuttosto deludente. Altro tentativo, forse mal riuscito, era quello di distrarre l’opinione pubblica ungherese dai problemi interni: corruzione dilagante, disoccupazione in crescita -tanto che almeno mezzo milione di ungheresi sono espatriati negli ultimi anni, in cerca di un lavoro- economia in battuta d’arresto, educazione e salute in crisi. A giudicare dall’affluenza alle urne, l’operazione volta a sviare gli elettori non sembra essere riuscita.

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