L’arte dei numeri

Geometria e arte si incontrano, formando una sintesi sublime a Palazzo Metternich, sede dell’Ambasciata d’Italia a Vienna. Il bianco e il nero, non solo simboleggiano un positivo e un negativo, ma un’ambiguità visiva che va al di là del qui e ora, al di là dello spazio fisico, per coinvolgere la dimensione mentale e acquistare così significati esistenziali. L’alchimia straordinaria delle installazioni di Esther Stocker nasce da questa ambivalenza di forme percepite dall’occhio e dal cervello umano, ma al tempo stesso dalla sensibilità del pubblico che osserva le sue opere. Siamo noi che le osserviamo a dover decidere cosa ci vediamo.

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E quel bianco e quel nero, apparentemente disposti in schemi semplici come griglie, formate da parallele e perpendicolari, righe, linee spezzate, diagonali, angoli, che sembrano la quintessenza dell’essenzialità, sono al tempo stesso universi complessissimi. In loro c’è la geometria non-euclidea, la teoria degli insiemi e il transfinito di Georg Cantor, la psicologia della Gestalt, ovvero il modo in cui percepiamo le forme. Insomma tutto un universo parallelo, che ci parla di noi, del senso profondo della vita. Ma possono davvero i numeri trasformarsi in arte? L’altoatesina Esther Stocker sa giocare con lo spazio, scomponendolo e ricomponendolo, sa intervenire sulle strutture, plasmare le forme andandone a recuperare la loro essenza profonda, il loro valore simbolico, che da pura geometria diventa filosofia, e ancora arte. Nelle sue geometrie minimaliste, bianche e nere, è racchiuso il senso profondo del nostro esistere su questa Terra. A noi sta attraversare, percorrere la sua arte, introiettarla e farla nostra. 

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Sculture e installazioni a Palazzo Metternich

Esther Stocker è italiana, nata a Silandro in Alto Adige. Ha studiato a Vienna all’Accademia di Belle Arti, all’Accademia di Brera a Milano e all’Art Center College of Design di Pasadena in California. Le sue installazioni a Palazzo Metternich, sede dell’Ambasciata italiana, hanno rappresentato per lei una piacevole sfida: misurarsi e rapportarsi con le strutture architettoniche, con stucchi e quadri, con statue e arredi che rappresentano un segno forte del passato.

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“La prima mia impressione è stata quella che ci fosse già troppo qui. Così mi sono chiesta che cosa potessi fare con il mio lavoro -mi spiega Esther- Ci sono già così tante opere d’arte, ci sono quadri, oggetti. E mi sono chiesta, dove posso inserire i miei lavori, visto che la maggior parte di questi arredi non si possono togliere dalle pareti?”.

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Geometrie che debordano

L’arte aiuta a risolvere l’irrisolvibile, a raggiungere l’irraggiungibile. È l’arte stessa ad essere portatrice di verità nascoste. Può risolvere paradossi, può creare nuove dimensioni. “Il cuore dell’arte è proprio racchiuso nell’idea che si possa sempre fare qualcosa, si può sempre avere un’idea -sottolinea Esther- Anche questo mio intervento qui in Ambasciata è una sorta di dialogo, anche con un certo risvolto esistenziale. Come mi trovo in queste stanze? Che cosa desidero? Anche questa sala più geometrica, è l’idea di una forma giocosa che può continuare”. E qui, nel Salone Verde, entra prepotentemente il concetto di infinito.

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L’installazione abbraccia tutto, dal pavimento allo spazio circostante. Strutture simili a parallelepipedi sembrano uscire dal piano orizzontale del pavimento e protendersi verso vette metafisiche. Parallelepipedi che sono di fatto strutture sulle quali ci si può sedere, che si possono toccare, fare proprie. Parallelepipedi che entrano in scena come un intervento forte, ma nel contempo si fondono con le architetture antiche, compenetrandole.

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Non solo punti e linee ma anche curve

Lo spazio nelle mani di Esther Stocker si increspa, si piega, talvolta si accartoccia. Non ci sono solo linee e punti, ma anche le curve. Ma queste curvature spaziali, che sembrano aprire porte segrete nella dimensione spazio-temporale, sono come equazioni impazzite.

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Le sculture della Stocker sono come una visualizzazione della teoria della relatività di Einstein. Piani plasmati dall’artista, dall’urgenza di rispondere a quesiti quali: perché siamo qui? qual’è il nostro modo di rapportarci con lo spazio circostante? dove ci troviamo? in quale spazio esistiamo? che senso ha la nostra esistenza?

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Questi monoliti bianchi e neri, sono la scacchiera sgangherata del nostro inconscio, sono gli schemi rotti e ripiegati su loro stessi, sono le paure che si sciolgono al sole, increspature nel nostro animo, strutture di possibili universi paralleli. Le sculture della Stocker campeggiano possenti nella Sala delle Feste. Sono assiomi, sono segni perentori, sono concetti che prendono forma su larga scala.

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Si parte da modelli piccoli

Alcune delle sculture del Salone delle Feste sono state realizzate con resine epossidiche, perché pensate per essere esposte anche all’aperto. La più grande è stata concepita direttamente a Palazzo Metternich. Una struttura interna di legno, composta pezzo per pezzo, successivamente ricoperta di carta. Eppure la loro presenza non le fa sembrare creature aliene giunte da una galassia lontana anni luce. Anzi, le loro curve sinuose sono in armonia perfetta con le vestigia del glorioso passato. “Parto sempre da modelli piccoli e poi li realizzo su scala più grande” mette in evidenza Esther.

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La scultura più grande, che si erge gigantesca, è stata realizzata a mano, in varie parti assemblate assieme, creata apposta per quella enorme sala dell’Ambasciata. Un’opera mastodontica che non sarebbe mai potuta entrare all’interno di Palazzo Metternich, se non smontata.

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Antico e modernissimo coesistono parlandosi

“Ho cercato di essere giocosa, in senso estetico, ma anche formale, e volevo far vedere che ci può essere una corrispondenza tra le forme del presente e del passato, che possono coesistere, dialogando assieme” racconta Esther.

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Nel Salone delle Battaglie e nel Salone Giallo il dialogo è più intimo. L’antica statua che ritrae una figura femminile sembra quasi parlare con le sculture della Stocker, creando una unità di fondo. Qui c’è tanto di nuovo, ma il vecchio sembra avere ancora tanto da dire, da comunicare. Ecco che magicamente si crea un dialogo tra le forme antiche e le forme molto contemporanee dell’artista altoatesina.

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I calcoli stanno a zero

“Nel realizzare le mie opere non parto da un sistema di numeri, o da calcoli -mi racconta Esther- Quando mi trovo a dover agire in spazi come questi devo calcolare, quando si fa geometria si deve per forza calcolare, però per me la matematica entra nella mia arte più in un senso filosofico. Che cosa significa una struttura che può continuare, come ad esempio il concetto di infinito. Sono anche molto affascinata dal tema dei paradossi, che è anche un concetto matematico”.

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Di paradossale c’è che le opere bidimensionali di Esther Stocker sfociano nella tridimensionalità, diventando più tridimensionali di una scultura. Il bianco e il nero creano illusioni ottiche. L’uno prevale sull’altro, prevaricandolo e imponendo percezioni formali diverse.

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Anche una tela si trasforma in un’installazione capace di evocare la profondità, creandola anche dove non c’è. Le forme bianche e nere diventano forme del pensiero e per questo con molteplici piani. “Nasco come pittrice -mi dice Esther- non ho cercato la tridimensionalità. Sono questi lavori e queste installazioni che hanno trovato me”.

La mostra Geometrie di Esther Stocker, curata da Marcello Farabegoli a Palazzo Metternich sarà aperta fino alla fine del mese di giugno. È possibile recarsi a visitarla solo su appuntamento.

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