A Parigi il giorno degli attacchi, il racconto di una scolaresca viennese

Un gruppo di studenti della Vienna International School era a Parigi il 13 novembre 2015, giorno degli attacchi sferrati dai terroristi dell’ISIS al cuore della capitale francese. Adolescenti, tra i 15 e i 16 anni, arrivati a Parigi da tutta Europa per giocare un torneo di calcio. Quel venerdì sera erano in giro per la città, in libera uscita. Alcuni dei ragazzi invitati a disputare il torneo si trovavano proprio allo Stade de France, per vedere la partita Francia-Germania.

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Per i ragazzini, per gli allenatori, per gli accompagnatori e soprattutto per i genitori, rimasti a casa, sono stati momenti di puro terrore. Per fortuna sono rimasti tutti illesi. Nessuno di loro è stato in alcun modo coinvolto nei sanguinosi attentati. 

“Eravamo a Parigi con altre sei scuole europee. Era presente persino la delegazione di un liceo israeliano -racconta Derrick Devenport, Vice Preside Secondary School alla VIS (Vienna International School)- I ragazzi sono stati ospitati dai genitori degli alunni della scuola inglese di Parigi”.

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La sera di quel venerdì 13 novembre le famiglie ospitanti hanno portato fuori i ragazzi per far visitare loro la città. “Noi allenatori e accompagnatori eravamo fuori a cena in un ristorante. È stato allora che abbiamo ricevuto il messaggio che ci informava degli attentati. Sono stati momenti drammatici, estremamente frenetici” evidenzia Devenport.

Attimi di paura, si fa la conta degli alunni

Una volta appresa la notizia comincia la ricerca spasmodica degli studenti. Ciascun allenatore si attiva e inizia il tam tam di telefonate e messaggi per avere la certezza che tutti fossero sani e salvi. “Abbiamo iniziato a contattare tutti i ragazzi presenti a Parigi per avere loro notizie e per assicurarci che stessero bene e che non fossero nelle zone nelle quali c’erano stati gli attacchi -mi spiega Derrick Devenport- Per quanto riguarda la nostra scuola, la Vienna International School, tutti i nostri ragazzi si trovavano con le rispettive famiglie ospitanti e per fortuna erano tutti in zone sicure, sani e salvi. Altre scuole, invece, avevano molti dei loro alunni che erano andati a vedere la partita di calcio allo stadio. Alcuni, i più grandi, erano persino usciti senza far sapere alle famiglie ospitanti dove si fossero recati. Tutti noi allenatori abbiamo trascorso momenti di grande angoscia. Per molte delle scuole è stata un’esperienza davvero difficile e dal fortissimo impatto emotivo”. Derrick Devenport è tuttora scosso mentre mi racconta i dettagli di quel weekend che doveva essere un’occasione di svago e amicizia tra scuole europee, e che al contrario si è trasformato pian piano in un vero incubo.

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“Per quanto riguarda la nostra scuola, la VIS, venti minuti dopo aver appreso degli attentati, siamo stati in grado di avere notizie da tutti i nostri ragazzi -dice Devenport- Siamo stati fortunati, erano tutti al sicuro. Immediatamente dopo abbiamo iniziato ad avvertire i genitori. Però altre scuola hanno faticato molto a raccogliere informazioni sui propri alunni e per interminabili minuti la paura ha regnato sovrana”. È panico, è angoscia allo stato puro quando non si riesce a comunicare, quando si sa con certezza che alcuni dei ragazzi si trovano esattamente in uno dei luoghi presi d’assalto dai terroristi, lo stadio. Minuti che sembrano durare un’eternità, minuti nei quali le linee sono intasate, nei quali è impossibile parlarsi o scriversi, minuti che scorrono senza poter sapere se la sottile linea di demarcazione tra salvezza e pericolo, tra la vita e la morte sia stata in alcun modo oltrepassata.

Niente torneo, si torna a casa

“Il giorno successivo ovviamente il torneo di calcio è stato cancellato -dice Devenport- Sabato tutti i ragazzi sono stati con le famiglie ospitanti, chiusi in casa, finché la domenica non è giunto il momento di andare in aeroporto. I nostri spostamenti sono stati ridotti al minimo: si è confluiti tutti insieme nel parcheggio della scuola inglese e poi con i pullman siamo andati direttamente all’aeroporto”.

Domenica 15 novembre erano di nuovo a Vienna, sollevati di trovarsi a casa, in una città relativamente più sicura.

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“Certamente a Parigi abbiamo vissuto ore di grande paura -racconta commosso Devenport- Eravamo proprio lì, mentre si consumavano quegli attacchi così violenti. Ma forse è stato persino peggio per i genitori, che erano a Vienna. Sapere che i loro figli erano a Parigi, anche il giorno successivo agli attentati è stato per loro fonte di enorme apprensione e ansia”.

La scuola inglese che aveva ospitato il torneo di calcio ha reagito con grande freddezza, calma e professionalità, assicura Derrick Devenport: “I ragazzi erano molto rilassati e tranquilli quando ci siamo incontrati tutti insieme. Però solo quando sono rientrati a casa hanno forse realizzato appieno quanto pericolosa sia stata la loro avventura a Parigi e cosa sarebbe potuto accadere se non fossero stati tutti così fortunati”.

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Quando il calcio unisce

Negli ultimi mesi, sempre i ragazzi della Vienna International School, si sono resi protagonisti di un’iniziativa a favore di giovani rifugiati provenienti soprattutto da Siria e Afghanistan.

Derrick Devenport ha coordinato un progetto che ha visto coinvolto un ostello per ragazzi, giunti in Austria da soli, senza familiari o parenti, e gli studenti della squadra di calcio della VIS.

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“C’è un ostello nel 15esimo distretto di Vienna, gestito dalla Caritas, che ospita ragazzi rifugiati di età compresa tra i 14 e i 17 anni -dice Devenport- Ragazzi rifugiati arrivati senza le proprie famiglie. Alcuni dei più piccoli vanno a scuola, ma quelli più grandi vivono come in un limbo: non studiano, non possono lavorare e sono piuttosto annoiati e tristi. Così ci è venuta l’idea di lavorare con questo ostello, per cercare di coinvolgere i ragazzi in una serie di attività che potessero occuparli e farli sentire più inseriti nel contesto sociale. Abbiamo pensato di fargli incontrare altri ragazzi e dar loro l’opportunità di giocare in un vero campo di calcio. Ecco perché abbiamo invitato un gruppo di 12 ragazzini nelle nostre strutture sportive”.

Prima della partita di calcio, la scuola ha pubblicizzato l’evento, chiedendo a tutti di mobilitarsi per donare scarpe, pantaloncini, magliette e ogni tipo di attrezzatura necessaria per giocare a calcio. “Eravamo certi che i ragazzi rifugiati sarebbero stati sprovvisti dell’occorrente per giocare, così quando sono arrivati hanno trovato tutto il necessario per scendere in campo” rilancia Devenport.

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Due ore di gioco, tra rifugiati e ragazzi della scuola internazionale VIS, tutti insieme.

“La nostra scuola ha anche provveduto a cibo e bevande prima e durante la partita di calcio, come pure alla pizza mangiata a fine gioco, per consentire ai ragazzi di rifocillarsi -sottolinea Devenport- Così anche il pranzo insieme è diventato un momento di divertimento e di aggregazione. Si sono molto divertiti e tutti, i rifugiati e i nostri studenti, hanno chiesto di poter organizzare nuove analoghe iniziative”.

È seguita una nuova partita all’aperto, qualche allenamento per quei due o tre ragazzi rifugiati più dotati di capacità di gioco, e di recente un incontro indoor.

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“Adesso che è pieno inverno, abbiamo organizzato una serie di incontri al coperto -puntualizza Devenport- Vogliamo mantenere aperta l’iniziativa delle partite di calcio, ma ovviamente all’interno della nostra palestra, organizzando soprattutto partite di futsal (che si gioca in cinque, in un perimetro più ristretto e con regole modificate). L’idea è di vedersi una volta al mese”.

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Un gioco diventa linguaggio universale

Esistono anche altre iniziative in favore dei ragazzi rifugiati e Veronica Pagura, coordinatrice dei rapporti tra VIS e organizzazioni umanitarie, mi racconta alcuni dei progetti in via di realizzazione: “Le partite di calcio sono state una straordinaria esperienza per tutti, sia per i ragazzi rifugiati, sia per i nostri studenti. L’iniziativa ha riscosso tanto entusiasmo e consenso. Derrick Devenport è stato un eccellente organizzatore”.

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Agli altri progetti, invece, si sta ancora lavorando. “Non intendiamo dare ai rifugiati cose, oggetti, anche perché è esattamente ciò che tutti hanno fatto finora -dice Veronica- Al contrario, vorremmo cercare di fare qualcosa per accoglierli, per farli sentire integrati, per renderli partecipi. L’idea è di condividere del tempo con loro, naturalmente pensando attività che consentano di far divertire tutti e che facciano trascorrere in allegria ai giovani rifugiati alcune ore insieme ad altri ragazzi più o meno coetanei”.

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Uno dei progetti è legato alla musica, elemento di grande coesione, l’altro intende aiutarli a prendere confidenza con la lingua tedesca, farli chiacchierare in tedesco con i molti studenti madrelingua della VIS. Facendo conversazione si favoriscono amicizia e integrazione.

“Alla VIS siamo una comunità multiculturale e molti di noi sono in un certo senso migranti, ovviamente in altre condizioni e situazioni, ma sappiamo cosa significhi staccarsi dal proprio paese e andare da un’altra parte e costruirsi una nuova vita altrove -spiega Veronica- Nel corso delle nostre iniziative ci sono spesso ragazzi, o genitori che si offrono di operare come traduttori. Alcuni dei nostri alunni parlano il Farsi e hanno potuto essere di aiuto per i rifugiati provenienti dall’Iran. Abbiamo anche alcuni studenti che parlano l’arabo e che si sono rivelati di grande aiuto, dando anch’essi un contributo preziosissimo”.

Il gioco li ha uniti molto, diventando una sorta di linguaggio universale. Non c’era bisogno di dirsi molte parole, se non chiamarsi per nome nel caso si volesse la palla.

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In un gioco prevalentemente maschile, anche una ragazzina della VIS ha voluto a tutti i costi partecipare all’iniziativa, giocando anch’essa a calcio e suscitando lo stupore dei ragazzi rifugiati che ne hanno ammirato bravura e tecnica. La mamma di questa studentessa ha lavorato per due anni in un campo profughi in Libano, così sua figlia è oggi molto sensibile al tema rifugiati e ha voluto fare anche lei qualcosa di utile prendendo parte alla partita di calcio. Per tutti è stata un’esperienza di straordinario arricchimento.

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La raccolta delle biciclette

Altra iniziativa della VIS a favore dei rifugiati aiutati dalla Caritas, una raccolta di biciclette, organizzata da Shane Thomson che ha mobilitato tutta la scuola.

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Tanto entusiasmo, che si è tradotto in numeri di assoluto rilievo: 113 biciclette, 67 caschi, 32 lucchetti con catene, 12 monopattini e uno skateboard, raccolti una domenica, nell’arco di due ore.

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Shane ha chiesto a chiunque avesse vecchie biciclette di donarle.

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Poi è stata chiamata una ditta che ripara biciclette per rimetterle a punto e renderle utilizzabili in sicurezza e poterle infine consegnare a vari centri di accoglienza per rifugiati e ostelli, dislocati in altri distretti viennesi.

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“È così che abbiamo raccolto oltre un centinaio di bici -racconta Shane- 35 biciclette sono state già distribuite in un centro dove soggiornano adulti e bambini, arrivati da Iraq, Afghanistan, Siria e Somalia”.

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Altre 50 bici aspettano di essere fatte arrivare a centri che si trovano nel quinto, nel quattordicesimo, nel sedicesimo e nel ventunesimo distretto di Vienna.

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“Tanti soci del Vienna International Cycling Club hanno donato tempo ed energie per dare una mano a riparare le bici difettose -sottolinea Shane- È stato un grande lavoro di squadra”.

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Se una pizza diventa un boccone amaro

Il tempo trascorso insieme tra giovani rifugiati e ragazzi della VIS, impegnati in attività che portano a socializzare e fraternizzare, a imparare a conoscersi e a integrarsi, generano empatia per la storie drammatiche che alcuni di loro, pur così in tenera età, hanno dovuto sopportare nella loro tormentata esistenza.

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Emergono spesso drammi strazianti. Un paio di ragazzi rifugiati restavano in disparte dopo la partita di calcio e non mangiavano assieme agli altri. È così che Derrick Devenport chiede all’accompagnatore della Caritas perché mai i ragazzi non mangino la pizza assieme agli altri. L’accompagnatore gli spiega che a causa del loro lungo e travagliato viaggio, durato oltre due anni, questi due ragazzi sono talmente disabituati a mangiare, tanto che adesso devono fare strema attenzione all’alimentazione e seguire una dieta speciale. Devono far riabituare al cibo il loro stomaco, con un processo estremamente lento e doloroso. Per loro diventa difficile anche solo mangiare una pizza. Sono deboli e malati e lo stato di malnutrizione al quale sono stati costretti per anni, rende loro impossibile oggi avere una vita normale.

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Ecco perché molti di questi ragazzi rifugiati, giunti da soli qui in Austria, non hanno voglia di parlare, di raccontare la loro storia. Dietro alle loro giovani vite si nascondono tragedie di proporzioni inimmaginabili. Talvolta anche i vestiti che vengono donati dalle famiglie austriache sono troppo grandi per gli adolescenti rifugiati, spesso magri e malnutriti. Molti a soli 14 anni hanno affrontato pericoli inimmaginabili, gli orrori della guerra, la sofferenza delle privazioni, la morte vista da vicino nel corso di lunghissime marce forzate per terre ostili e per mare, quasi sempre in solitudine. La passione per il calcio adesso lenisce temporaneamente le loro pene.

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Oggi questi giovani rifugiati senza famiglia sono soli e devono camminare per proprio conto in un paese straniero, circondati da una lingua che non conoscono, da abitudini diverse, in un ambiente estraneo, nella speranza di un futuro migliore.

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