Scintille tra Austria e Turchia

La tensione è alta tra Austria e Turchia in queste ore. A scatenare la frizione tra i due Paesi le dichiarazioni rilasciate dal Ministro degli Esteri federale Sebastian Kurz (ÖVP). Il Presidente turco Racep Tayyip Erdogan è il benvenuto per qualsiasi incontro bilaterale, come pure altre figure di spicco della politica turca. Però, senza mezzi termini, il Ministro austriaco ha definito “non gradito” lo sbarco sul suolo austriaco della campagna elettorale sul controverso referendum del prossimo 16 aprile, che punta a modificare la costituzione turca, cambiandone il sistema in senso presidenziale. Una consultazione che potrebbe avere come risultato l’abolizione della figura del Primo Ministro e che concentrerebbe immensi poteri nelle mani del Presidente Erdogan. Non si sono fatte attendere le reazioni della Turchia. Il portavoce del Ministero degli Esteri turco ha infatti replicato che Vienna ha ostentato un atteggiamento di forza e mostrato parzialità, intervenendo in una questione che non riguarda direttamente l’Austria. Con educazione e fermezza Vienna ha ribadito le proprie posizioni. Non vuole che la forte polarizzazione su questo voto arrivi fino in Austria, Sebastian Kurz, perché a suo dire, l’irrompere della campagna elettorale referendaria non solo creerebbe un clima teso, ma non favorirebbe l’integrazione della comunità turca. Il rischio di attriti anche tra turchi e curdi è uno dei possibili conseguenti scenari.

 Bundesminister Sebastian Kurz. Bruxelles, 06.02.2017 – Foto: Dragan Tatic

Il Primo Ministro turco Binali Yildirim aveva reso nota l’intenzione del Presidente Erdogan di spendersi per la campagna referendaria anche in Europa, in quei Paesi nei quali sono presenti nutrite comunità turche, senza però fornire dettagli a riguardo. Lo stesso premier Yildirim si è recato personalmente in Germania a Oberhausen, per un comizio al cospetto di migliaia di cittadini turchi. Generiche ipotesi di ulteriori tappe della campagna elettorale in Germania, Belgio, Olanda e Danimarca sono state elencate come possibili strategie della campagna elettorale pro referendum costituzionale. Forse, per prevenire possibili tappe austriache, il giovane Ministro degli Esteri austriaco ha voluto precisare di considerare questa campagna elettorale “indesiderabile”. A riprova delle scintille tra Vienna e Ankara, le dichiarazioni diffuse dall’agenzia stampa Dpa, Deutsche Presse-Agentur, attribuite al Ministero degli Esteri turco, che avrebbe accusato la controparte austriaca di atteggiamento “razzista e islamofobo”.  Continua a leggere

Bucarest: la piazza non si fida del governo

Le manifestazioni di protesta in Romania non accennano a placarsi. A Bucarest c’è sempre un presidio di cittadini davanti all’edificio del governo, a Piata Victoriei. Un drappello di gente che sfida gelo, neve, vento e temperature sotto lo zero. 700 persone che restano simbolicamente a vigilare sull’operato del governo. Sono 16 giorni che la protesta va avanti.

A nulla è servito aver approvato lunedì in Parlamento, all’unanimità, un referendum sulla corruzione, su impulso del Presidente della Repubblica Klaus Iohannis, al quale spetta delineare i tempi per indire la consultazione popolare, che per legge deve essere preceduta da una campagna di 30 giorni. Come non sembrano essere state sufficienti le dimissioni del Ministro della Giustizia Florin Iordache, la settimana scorsa. Non è il primo dicastero a restare senza guida, già il Ministro dell’Economia e del Commercio Florin Jianu si era dimesso per motivi etici, perché in disaccordo con il governo, nel corso dei primi giorni della protesta. I romeni continuano a scendere in piazza contro l’esecutivo, in netto dissenso con le politiche attuate da Sorin Grindeanu. Dopo la grande dimostrazione che si è conclusa nel weekend, Toata la Romania veni la Bucuresti, una tre giorni nella capitale, alla quale hanno partecipato 70.000 manifestanti, oltre 50.000 persone a Bucarest, più 20.000 in altre città romene quali Sibiu e Cluj, la situazione non sembra essersi tranquillizzata. I romeni non si fidano del governo, vogliono che si dimetta. È una protesta pacifica, fatta di genitori con i propri figli, di tantissimi giovani, di cittadini che vogliono battersi per un Paese non più dominato dal malaffare e dalle appropriazioni indebite.

Già una volta è stata votata, in piena notte, di nascosto, il 31 gennaio scorso, quella discussa Ordinanza 13, un decreto di emergenza che depenalizzava alcuni reati di corruzione. Provvedimento che è stato poi ritirato dal Primo Ministro Grindeanu. Nessuno vuole che l’azione della Mani Pulite romena si fermi. Decine di migliaia di persone, che hanno formato una enorme bandiera romena, blu, gialla e rossa, con le luci dei propri telefonini, chiedono a gran voce che la linea di rigore contro la corruzione non s’interrompa, che l’opera del DNA, Direcţia Naţională Anticorupţie (Direttorato Nazionale Anticorruzione), non venga bloccata. Per troppo tempo la Romania è stata rallentata nel suo percorso verso progresso e sviluppo da criminalità organizzata e da politici, istituzioni e amministratori corrotti. Entrata nell’Unione europea nel 2007 la Romania resta uno dei Paesi europei più poveri.  Continua a leggere

Il dopo Renzi visto da Vienna

Austria e Italia, entrambe sono state alle prese con elezioni e referendum, lo scorso 4 dicembre. Per gli austriaci, però, i riflettori sono stati puntati sulle presidenziali, sull’evento politico che ha catalizzato l’attenzione per 11 mesi. Eppure il neo eletto Presidente federale Alexander Van der Bellen tra le sue prime dichiarazioni ha espresso sostegno a Matteo Renzi, sperando in un suo successo. Era prima della diffusione dei risultati schiaccianti a favore del NO, arrivati domenica in tarda serata. Una vittoria, quella del fronte del NO, piuttosto prevedibile. Forse su Renzi si è abbattuto una sorta di “effetto Clinton”: preoccuparsi di avere schierati dalla propria parte personaggi famosi, ma non accorgersi che la classe media impoverita, arrabbiata, dimenticata, scontenta, avendone la possibilità, avrebbe invece scritto, una storia diversa. Lo scontro è diventato politico, la Costituzione è rimasta come un pretesto di facciata. Poi dopo la vittoria del NO, arrivano le dimissioni. “L’Italia è abituata all’instabilità politica. Per tradizione consolidata cambiate governi molto spesso, è una vostra costante, quasi un vostro tratto distintivo -mi dice Thomas Seifert, Capo Redattore degli Esteri della Wiener Zeitung– Ecco perché qui in Austria non siamo preoccupati. E poi avete sempre personalità di alta caratura che possono dare vita a un governo tecnico, in grado di salvare la situazione”.

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L’Austria si è unita e schierata compatta dietro all’idea dell’Unione europea rappresentata da Van der Bellen, respingendo le formule populiste e ultranazionaliste, divisive e conflittuali di Hofer e dell’FPÖ. “Il segnale che arriva dall’Italia a Bruxelles non è positivo -argomenta Seifert, che aggiunge- Renzi ha commesso un grave errore personalizzando questo referendum. Mi ricorda il Cancelliere Bruno Kreisky, socialdemocratico, che nel novembre del 1978 fece indire un referendum sull’impianto nucleare di Zwentendorf. Anch’egli lo personalizzò. E visto che tutti volevano sbarazzarsi di lui, prestò il fianco a coloro che volevano farlo fuori. Così alla fine perse il referendum”.  Continua a leggere

Voto ungherese: un boomerang per Orbàn

Niente quorum. Il referendum ungherese sui migranti non passa. L’affluenza alle urne al di sotto del 50% (per la precisione 43,42%), gioca un brutto scherzo al leader nazionalista Viktor Orban, che tanto ha voluto e tanto si è adoperato per la vittoria del NO. Così, la contro-rivoluzione culturale, promotrice di un’identità cristiana, minacciata dal forte tasso di immigrati islamici, della quale il premier ungherese si è fatto promotore all’interno dell’Ue, subisce un colpo inatteso. E a nulla, o a poco serve la percentuale con la quale si è espresso chi è andato a votare: il 92% degli elettori si è pronunciato a favore del NO, a sostegno della linea politica del premier, ovvero contro la ripartizione in quote dei migranti imposta agli stati membri dall’Unione europea. Che la campagna referendaria non stesse prendendo la piega voluta, a dispetto degli oltre 14 milioni di euro spesi dai suoi promotori, è apparso evidente quando recatosi al seggio, Viktor Orban, ha dichiarato che al di là del raggiungimento del quorum, avrebbe contato il parere espresso dalla maggioranza dei votanti. Di fatto un tentativo, fin troppo scoperto, di mettere le mani avanti, prima di un risultato negativo.

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La vera incognita era, infatti, l’affluenza alle urne. La disaffezione verso la politica da parte dell’elettorato è sempre più evidente, in tutti i Paesi dell’Ue, e anche l’Ungheria non sembra esserne esente. Però, sarebbe molto azzardato pensare che tutti coloro che hanno disertato le urne siano europeisti convinti e accesi sostenitori di una politica delle porte aperte agli immigratiContinua a leggere