Siria: volevano che uccidessi, così sono fuggito

La testimonianza di Mehyar Sawas, 25enne di Damasco, svela uno scenario spaventoso della Siria. Lui è scappato perché non voleva uccidere. Un paese, la Siria, dilaniato da una guerra civile, da una diffusa cultura del sospetto che porta a essere arrestati e incarcerati anche solo per aver manifestato il proprio libero pensiero. Talvolta di coloro che vengono arrestati si perdono per sempre le tracce. Secondo Mehyar sono tante le persone sparite, in un gorgo di torture, violenza e morte. La stessa sorte stava per toccare sia a lui, sia a sua sorella.

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In un clima di guerra aperta, il governo obbliga al richiamo del servizio di leva. Moltissimi giovani, studenti universitari come Mehyar, hanno deciso di abbandonare per sempre il proprio paese straziati dal dilemma se uccidere, o meno altri uomini. 

Che volto ha l’opposizione siriana?

L’incontro con Mehyar apre uno squarcio di cruda verità sulla situazione in Siria. Da una parte il presidente Bashar al-Assad, dall’altra la cosiddetta opposizione, molto frammentata e divisa, che raccoglie al proprio interno diversi gruppi politici: dissidenti in esilio, attivisti, miliziani armati. Molti di questi gruppi hanno cercato di formare delle coalizioni per ottenere visibilità e dignità politica anche all’estero. Unico elemento che accomuna tutti è la volontà di far cadere il regime di al-Assad.

La coalizione più rappresentativa è la National Coalition for Syrian Revolutionary and Opposition Forces (Coalizione Nazionale siriana per le Forze rivoluzionarie e di opposizione), che di fatto è un ideale ombrello politico composto da una serie di gruppi che hanno il controllo di specifici settori del territorio siriano, ma idee diverse sul tipo di futuro governo da attuare in Siria dopo l’eventuale caduta di al-Assad. La Coalizione Nazionale include al proprio interno dai Local Co-ordination Commitees – Comitati di Coordinamento Locale (LCC) un network di attivisti, a una serie di gruppi rivoluzionari. La Coalizione Nazionale ha anche il sostegno dei ribelli del Supremo Consiglio Militare (SMC) e del Libero Esercito siriano (FSA). La Coalizione Nazionale non include tuttavia né il Comitato di Coordinamento Nazionale (NCC), un’alleanza di 16 partiti di sinistra che ha al proprio interno anche tre partiti politici curdi, di fatto un’opposizione interna che ha rifiutato l’uso della violenza; né molti gruppi militari islamisti jihadisti tra i quali Al Nusra Front. Su tutti, l’ombra di terrore gettata dall’ISIS, che tinge il quadro di colori foschi.

Sono dovuto fuggire, non volevo diventare un assassino

Mehyar è un brillante giovane siriano. Mi racconta di aver finito il servizio militare all’inizio della guerra, circa quattro anni e mezzo fa. Finito il liceo ha iniziato l’Università di arti applicate a Damasco. Ha studiato scultura per un anno, per poi frequentare la facoltà di belle arti.

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La situazione familiare di Mehyar è molto complicata. La sua famiglia è composta da 5 persone una sorella di 30 anni, malata di schizofrenia, una malattia mentale che le impedisce di poter fare una vita normale dall’età di 15 anni. Mehyar ha anche un fratello, che lavora a Dubai da 8 anni. Non può fare ritorno in Siria per via del servizio militare che dovrebbe prestare se rientrasse. Le condizioni di salute di sua madre sono molto precarie. È diventata quasi cieca, non può camminare ed è affetta da una grave forma di diabete. Quando mi parla di suo padre gli occhi di Mehyar diventano lucidi: “Mio padre era malato di cancro quando ero ancora in Siria, più o meno dieci mesi fa –racconta commosso- Mentre stava facendo una serie di cicli di chemioterapia per cercare di arginare il suo male, ho ricevuto una telefonata che mi comunicava che ero obbligato ad arruolarmi nell’esercito”. Sono giorni drammatici per Mehyar, che fa l’impossibile per evitare di essere arruolato nell’esercito siriano. Purtroppo non riesce a trovare alcuna soluzione per evitare l’obbligo del richiamo alla leva. “Non ho avuto scelta –dice Mehyar con la voce rotta- Se fossi rimasto avrei dovuto combattere, avrei dovuto uccidere, e io non volevo prendere parte al conflitto, non volevo uccidere. Io non voglio ammazzare nessuno. Entrambe le parti secondo me sono in errore, sia le truppe governative di al-Assad, sia l’opposizione”.

“È stata una decisione terribile per me –mi dice con tono grave- Ero depresso, distrutto all’idea di dover abbandonare mio padre, ammalato di cancro in un letto d’ospedale. Ma purtroppo non avevo scelta, dovevo scappare dalla Siria. Due mesi dopo la mia partenza mio padre è morto”.

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In Siria ci sono ancora sua mamma e sua sorella. A quanto dice Mehyar stanno soffrendo molto, sono sole, senza alcun aiuto o sostegno. La sorella rappresenta per lui una fonte di grande preoccupazione per i suoi seri disturbi mentali, aggravati dalla situazione di conflitto in cui versa la Siria. Tragedia nella tragedia, sua sorella è stata anche colpita da una scheggia metallica di un missile che è esploso a pochi passi da lei.

“La guerra ha colpito anche me –mi spiega turbato Mehyar- Una volta ho cercato di oltrepassare un posto di blocco presidiato da militari di al-Assad e uno dei soldati di quel check-point mi ha costretto a entrare in una macchina. Di fatto la sua intenzione era quella di rapirmi. Un suo superiore lo ha sentito gridare e così si è avvicinato. Mentre il soldato dava spiegazioni al superiore, gli altri militari hanno iniziato a picchiarmi. Dopo avermi malmenato, mi hanno lasciato andare, dicendomi che se avessi tentato un’altra volta di oltrepassare un posto di blocco mi avrebbero fatto sparire. Così si vive in Siria, questa è la situazione”. A quanto mi racconta Mehyar in Siria può accadere di essere arrestati, portati in località segrete, picchiati, torturati e uccisi. Alcuni cittadini siriani sono spariti nel nulla. Centinaia di “desaparecidos” siriani, di persone diventate invisibili, delle quali si è smarrita ogni possibile traccia. Non ci sono corpi da piangere, sono semplicemente scomparsi per sempre.

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Mehyar ha potuto frequentare solo un mese alla facoltà di belle arti, poi “ho ricevuto quella maledetta convocazione e sono dovuto fuggire” dice commosso.

La prima tappa del suo viaggio è stata in Turchia. Avrebbe voluto che lo seguisse tutta la sua famiglia, o meglio, quel che resta della sua famiglia, ossia la mamma e la sorella. “Purtroppo è impossibile per loro raggiungermi –sottolinea Mehyar- Mia sorella tra l’altro ha avuto problemi con il governo e non ha il passaporto. Tre o quattro anni fa, quando la guerra era iniziata da poco, si è dichiarata a favore degli Stati Uniti, così è stata arrestata e portata in carcere”. Per fortuna Mehyar è riuscito a fornire tutta la documentazione che provava il grave stato mentale della sorella e così l’hanno rilasciata. Poco prima che iniziasse la guerra, mi racconta Mehyar, la situazione era molto difficile. Se per caso ti avessero sorpreso mentre dicevi cose sgradite al governo, o contro il presidente al-Assad potevi essere arrestato e sbattuto in prigione, o peggio, fatto sparire. “Poi, quando la guerra è iniziata, è diventato anche peggio” mi dice Mehyar.

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Sopravvivere in Turchia è stato durissimo

“In Turchia, a Istanbul, ho cercato di lavorare per poter aiutare la mia famiglia –dice Mehyar- Ho cercato un lavoro nell’ambito artistico, il mio campo, ma non è stato facile. Infatti per poter lavorare devi prima imparare la lingua turca”. Colleziona lavoretti saltuari, come ad esempio dipingere i muri di una catena di ristoranti, realizzando murales. “A Istanbul per me è stata molto dura –sottolinea Mehyar- Vivevo una stanza che dividevo con altre sei persone. Sono rimasto lì per nove o dieci mesi. Mi sono trasferito in molti posti diversi e ho cambiato occupazione continuamente. Questi lavori non mi rendevano molti soldi. Le somme che guadagnavo mi servivano a malapena per sopravvivere”. Il grande rammarico di Mehyar è non aver potuto aiutare la sua famiglia, perché il denaro che guadagnava non era abbastanza né per avere la madre e la sorella vicino a lui, né per far loro arrivare medicine o cibo.

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Un lungo viaggio, pieno di pericoli

Mehyar mi racconta di aver preso la decisione di abbandonare la Siria e tentare di raggiungere l’Europa quando suo cugino ha deciso di fare altrettanto. “Mio cugino e alcuni amici mi hanno prestato dei soldi. Siamo arrivati in Austria circa un mese e mezzo fa” dice Mehyar.

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Lui e suo cugino hanno stretto un accordo con una persona che è coinvolta nel traffico illegale di migranti. Hanno dato il denaro e questo intermediario che ha organizzato il loro viaggio, passo dopo passo, fino in Macedonia. Prima si sono spostati in macchina. Sono stati portati in una località vicina a Smirne. Sono arrivati di sera. Da lì si sono diretti verso il mare. “Ci siamo imbarcati nel cuore della notte –dice Mehyar con enfasi mista a commozione- Eravamo circa una cinquantina di persone a bordo di un’imbarcazione di appena sei metri. Una barca di fortuna, una di quelle di plastica gonfiabile, una specie di gommone artigianale. Durante la traversata il motore si è fermato”. Sono rimasti così, in balia dei flutti per svariati, interminabili minuti. Mezz’ora di puro terrore. “Né la guardia costiera turca, né quella greca potevano venirci a salvare, perché eravamo ancora lontani dalle rispettive acque territoriali –incalza Mehyar- Poi il motore ha ripreso improvvisamente a funzionare. Tre ore dopo siamo approdati in Grecia, sull’isola di Lesbo.

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Ci siamo dovuti inerpicare su una collina, una salita ripida che ha creato molti problemi al nostro gruppo, dove c’erano anche bambini e anziani bisognosi di aiuto”.

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Hanno impiegato circa quattro ore per arrivare in cima alla collina e per raggiungere un campo di accoglienza per rifugiati non troppo distante dal capoluogo Mytilini. Qui vengono dati loro dei documenti e i biglietti per una nave che li porta fino ad Atene. Da qui, dalla capitale greca, il tragitto alla volta dell’Austria è stato piuttosto agevole, rispetto alla prima parte del viaggio, mi spiega Mehyar.

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Prima un tratto in pullman, poi un’ora di cammino lungo i binari di una ferrovia. Così Mehyar e suo cugino raggiungono la Macedonia. Da lì si dirigono in Serbia a bordo di un taxi. Poi dopo un cammino di un paio d’ore raggiungono il confine tra la Serbia e la Croazia. “Ormai ci sentivamo al sicuro –dice Mehyar- perché tutti i nostri spostamenti erano gestiti e controllati da volontari e da organizzazioni che fanno capo alle Nazioni Unite. Non eravamo più nelle mani dei trafficanti illegali”.

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La polizia croata li scorta al confine ungherese. Da qui salgono su un treno e attraversano l’Ungheria, solo un transito veloce, nel corso della notte, a bordo di un convoglio speciale per rifugiati. “Siamo stati fortunati. Non abbiamo dovuto aspettare in Ungheria come è successo a molti” racconta Mehyar.

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Al confine con l’Austria vengono presi in consegna dalla polizia. Con un taxi arrivano direttamente a Vienna.

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Mille euro a persona, tanto è costato a Mehyar il tragitto in barca. Per tutti gli spostamenti ha pagato altri 600 euro. Un totale di 1.600 euro a persona, per un viaggio dalla Turchia alla Macedonia, finiti nelle tasche di chi gestisce il business dell’immigrazione illegale. Un viaggio che fortunatamente per Mehyar è durato solo 5 giorni, ma che molti altri suoi connazionali hanno percorso talvolta anche in un mese.

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A Damasco si viveva nel terrore

Vivere a Damasco era diventato pericolosissimo. “C’erano cecchini all’opera, sulle montagne circostanti. Si rischiava la vita ogni giorno. Andare all’università per me era una costante scommessa contro la morte –racconta Mehyar- Bombe e missili esplodevano nel cuore della città.

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Studiavo arte, ma ero quotidianamente sotto minaccia di morte”. Ora le parole di Mehyar riprendono i toni della denuncia: “Il mio paese è devastato da una guerra fratricida. L’esercito di Bashar al-Assad uccide, arresta, rapisce, fa scomparire nel nulla persone innocenti. Ma le opposizioni fanno altrettanto, usano le armi come al-Assad, uccidono anche loro. Muoiono ogni giorno uomini, donne, bambini. Si sono anche smarrite le ragioni che hanno portato a questo sanguinoso conflitto”. Mehyar mi fa notare come la gente in Siria non legga molto, e si affidi al contrario a ciò che vede in tv e a ciò che sente alla radio, senza sapere davvero cosa stia succedendo e senza alcuno spirito critico. “Io sono molto spaventato da Bashar al-Assad –sostiene Mehyar- perché gode del supporto di alcuni governi stranieri e mi sembra che stia diventando ogni giorno più forte. Il mio vero timore è che a Bashar al-Assad non importi affatto dei cittadini siriani, ma solo di non perdere il potere. Il motivo per cui credo che anche le opposizioni stiano sbagliando è che tutti noi siriani siamo fratelli. Siamo musulmani. La nostra religione non predica la guerra, non dice che uccidere sia giusto. Nessuno ha il diritto di togliere la vita a un altro essere umano”.

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L’arte mi ha salvato, vorrei diventare uno scultore conosciuto

“Tutti i rifugiati siriani hanno sentito molto parlare della Germania e della Scandinavia, ecco perché vogliono tutti recarsi lì. Nessuno, però, ha davvero idea di come si stia in quei paesi –dice Mehyar- lo hanno solo sentito dire e pensano che lì si possa vivere una vita tranquilla, senza troppi sforzi”. Alcuni siriani hanno venduto tutto e si aspettano di ricevere sussidi e un’istruzione per i loro figli. Ecco perché, secondo Mehyar, c’è quella corsa spasmodica per raggiungere la Germania, o la Svezia. “A mio giudizio queste persone non hanno veri obiettivi, non intendono raggiungere alcuna meta di rilievo nella loro esistenza –dice Mehyar- Per quanto mi riguarda trovo che l’Austria sia un paese bellissimo, ecco perché ho fatto domanda di asilo qui. Non c’era alcuna ragione per andare altrove.

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Nel mio cuore e nella mia testa so perfettamente cosa fare”. Mehyar studiava belle arti all’università prima che tutta la situazione precipitasse irrimediabilmente. “Leggere e studiare è uno dei doveri del nostro esistere su questa terra. Molti musulmani, però, non leggono e non studiano –sottolinea Mahyar- Si affidano a ciò che altri raccontano, a travisamenti e cattive interpretazioni della nostra religione. Studiare ci permette di esercitare il nostro spirito critico. Personalmente punto a continuare i miei studi e a diventare uno scultore conosciuto”. Mehyar realizza sculture, ma anche dipinti e foto, come si può vedere dalla sua pagina Facebook ed è uno dei personaggi di spicco di Justart, un gruppo di giovani talenti artistici siriani, che ha anche creato il proprio sito web.

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Mehyar vorrebbe lasciare un segno in questo mondo, un segno positivo. Mi dice che vorrebbe fare qualcosa di buono per il suo martoriato paese: “Attraverso la mia arte mi piacerebbe dipingere il volto buono dell’Islam e servendomi del mio talento artistico sono sicuro di poter far conoscere al mondo questo ritratto di un Islam buono –mi dice animato da entusiasmo e determinazione- Mi piacerebbe realizzare anche un murales che racconti cosa sia davvero la religione musulmana. Non si tratta di una fede pericolosa, ostile, che predica violenza e morte. Noi musulmani non siamo terroristi. Con questo mio dipinto vorrei provare a lanciare un messaggio di pace e di fratellanza tra gli uomini, tutti, senza distinzioni religiose”.

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